Si riaccende la protesta dei dipendenti delle acciaierie Ex-Ilva. La situazione è critica da mesi, l’attuale governance continua da mesi a chiedere soldi pubblici – dei contribuenti – per debiti, bollette di acqua e gas ma nessun investimento, produzione dell’acciaio ormai ridotta al minimo, lavoratori a casa, le attività di 145 aziende dell’appalto sono state sospese e gli impianti sono ormai al collasso, alcuni non più idonei. Le sorti dell’industria produttrice di acciaio sembrano abbastanza segnati ed ovviamente se a collassare è Taranto la crisi trascinerà anche gli stabilimenti di Genova e Novi Ligure.
È arrivato il tempo delle decisioni indispensabili e non più prorogabili. I sindacati chiedono allo Stato di acquisire il controllo e la gestione degli impianti nazionalizzando o diventando socio di maggioranza, rinegoziando l’accordo che prevede la transizione dei nuovi assetti societari al 2024, stabilendo e vincolando l’utilizzo dei fondi e la loro destinazione.
Non c’è più tempo. I lavoratori chiedono risposte certe, a queste si affiancano le domande di tanti cittadini, comitati e associazioni di Taranto, provincia e non solo. Assumere il controllo di un’azienda che doveva essere rilanciata sul mercato ma che a tutti è sembrato più un lento accompagnamento al fine vita, con un continuo gettito di contributi pubblici, ammortizzatori sociali e soprattutto un ininterrotto danno ambientale e sanitario senza alcun guadagno, senza alcuna liquidità. Tutto questo, a chi conviene?
“La crisi è locale perché Acciaierie d’Italia non ha più sufficiente liquidità – dichiara Alessandro Marescotti, Presidente PeaceLink – ma la crisi è anche globale. Le banche non fanno più credito alle aziende in crisi. Il costo del denaro è aumentato con l’aumento dell’inflazione, aggravando i problemi di liquidità. Questi problemi di liquidità – continua Marescotti – sono ulteriormente amplificati dall’aumento delle materie prime e dei costi dell’energia, conseguenti alla crisi innescata dalla guerra in Ucraina. Non solo a Taranto ma in altre parti d’Italia la siderurgia si sta fermando per l’uragano economico scatenato dalla guerra che rende difficili gli approvvigionamenti di materie prime e incerte le forniture in generale, con un aumento dei prezzi che sta innescando fenomeni di destabilizzazione economica. Lo spettro della recessione non consentirà alla siderurgia alcun ciclo espansivo e quindi a Taranto non si raggiungeranno gli obiettivi di aumento produttivo prefissati. I bilanci aziendali non vedranno profitti ma voragini di debiti. La nazionalizzazione non risolverà le cause di questa crisi globale. La nazionalizzazione cambierebbe solo gestore a problemi irrisolti e irrisolvibili nell’attuale contesto“.
Una situazione ormai drammatica. Quello che per tanti anni è stato il principale settore produttivo nazionale oggi “è un cavallo morente che non potrà essere cavalcato per molto altro tempo” – sostiene Marescotti – che “sta stramazzando rovinosamente, facendo cadere nella disperazione i lavoratori e le loro famiglie, che hanno bisogno in questo momento di un sostegno”.
“L’intervento dello Stato – chiarisce – deve servire a sostenere i lavoratori e le loro famiglie, non l’azienda. Le due prospettive non sono tra loro compatibili perché con un sostegno all’azienda si rischiano di bruciare miliardi di euro per colmare i buchi di bilancio invece di aiutare i lavoratori a costruire un nuovo futuro occupazionale. Occorre un piano B per le aree di crisi, fra cui Taranto, basato sulle bonifiche e su una riconversione economica finalizzata alla transizione ecologica. Lo stabilimento ILVA di Taranto– conclude – non ha un futuro né economico né ecologico”.