C’era una mamma, 39 anni, un marito ed un bambino di quasi 5 anni. C’era una mamma con la fortuna di avere la sua famiglia unita e con un lungo elenco di cose che riempivano la sua vita, con tutte le salite e discese che al giorno d’oggi ci può riservare.
C’era una mamma la cui vita si è fermata in un ospedale tra stantuffi dei respiratori, ruote di carrelli e tra i “bip” delle macchine. Quei rumori irregolari, che fanno paura, uno scenario sonoro incerto ma che dà speranza.
C’era una mamma il cui segnale che scandiva i suoi parametri vitali, dopo circa due mesi, ha emesso quel suono continuo, assordante che segna la fine della speranza, della fiducia di poter vincere quella personale battaglia contro il Coronavirus.
C’era una mamma che il 18 marzo 2021 non ha superato le conseguenze a seguito dell’infezione da SARS–CoV–2.
Non basta più essere positivi, cantare sui balconi esorcizzando la paura, stendere lenzuola dai balconi con su scritto “ce la faremo”, ora tocca essere realisti. E la realtà ci sta strappando con violenza tante vite umane, sta portando, ormai da più di un anno, tanta sofferenza a migliaia di famiglie. La sofferenza di una morte e di non poterla neanche vivere nella piena e violenta forza del suo dolore.
E dovrebbe bastare solo questo per convincere tutta la schiera dei “non ce n’è coviddi”, dei “no mask”, di quelli che ancora oggi dopo 104.241 deceduti cercano un’altra motivazione ipotizzando visionarie tesi complottiste.
Donne e uomini che lasciano le loro case in ambulanza non potendo più sentire e vedere i propri famigliari, non avendo in alcun modo la possibilità di avere quel calore umano che solo gli affetti vicini possono dare, sprofondando in una dimensione dove la lotta è allo stesso tempo con la malattia e con la solitudine, trovando, da soli, il modo per sconfiggere entrambe. È disumano, surreale.
Ma ora questa è la nostra realtà.
La realtà di un giovane padre che dovrà trovare le parole per spiegare tutto questo dolore al proprio figlio. Un giovane marito che nel giorno della festa del papà, ha dovuto accompagnare la sua sposa nell’ultimo viaggio.
Il virus ha vinto! Ha vinto un’altra battaglia ma solo noi possiamo fare sì che la guerra non l’abbia vinta. Lo dobbiamo a 104.241 italiani e italiane che nella solitudine di una fredda terapia intensiva hanno lasciato mariti, mogli, padri e madri e lo dobbiamo ai loro figli, piccoli e non.
Non si è mai preparati alla morte di qualcuno e non ci sono perdite che valgono di meno o di più, ma strappare ad un bambino l’amore totale e assoluto di una madre ti colpisce come un pugno allo stomaco, ti lascia inerme e ti fa rabbia.
Quello che ci sta accadendo non potrà essere cancellato né da un vaccino né dalla fine della pandemia. Ferite che ci porteremo dietro per sempre e molti di noi dovranno fare i conti con l’assenza di persone care. A noi rimane un fondamentale strumento nelle nostre mani: la rabbia. Già, quella forza molto potente che dobbiamo trasformare in grinta affrontando la battaglia collettiva contro il Coronavirus con consapevolezza e responsabilità, ognuno per la sua parte.
Come in una grande corsa a staffetta: tutti gli atleti sono importanti per guadagnare metri e staccare l’avversario, lo schema di gioco ed i punti deboli del nostro rivale li conosciamo, ci basta davvero poco per avvicinarci al traguardo.