Il consiglio di lettura di questa settimana riguarda, purtroppo, fatti realmente accaduti, una ferita per il nostro paese che non si rimarginerà mai: Diaz, processo alla polizia di Alessandro Mantovani.
Prima di parlare del testo in sé, occorre però fare un breve excursus sui fatti che coinvolsero Genova nel lontano 2001.
Nel luglio del 2001, precisamente tra il 19 e il 22, a Genova ci fu il G8, la riunione degli otto rappresentanti di altrettanti paesi industrializzati. In occasione di questo incontro i movimenti No-global insieme ad altre associazioni e movimenti, organizzarono una serie di manifestazioni. Il movimento No-global sostanzialmente critica un modello di società, in particolare nell’aspetto economico, che produce discriminazioni tra i popoli. Nello specifico viene criticata l’azione sfruttatrice delle multinazionali che attraverso lo sfruttamento del lavoro minorile, delle risorse naturali e il favoreggiamento di guerre non fanno altro che creare disparità e povertà.
Tornando alle contestazioni del Luglio 2001, in quei giorni molte furono le iniziative di carattere pacifico che animarono la città di Genova. Proprio su questo ultimo punto però è doveroso fare una riflessione. Molti, anticipatamente, criticarono la scelta da parte del governo italiano di Genova come luogo per la riunione dei “Grandi otto”, perché dal punto di vista della conformazione della città si prestava a divenire una “gabbia” a cielo aperto. Nonostante tutte queste perplessità il summit ebbe comunque luogo.
Ma veniamo al testo in questione. Scritto con scientificità, illustra e snocciola tutti gli avvenimenti che hanno caratterizzato quei giorni, ma dal punto di vista della gestione da parte delle forze dell’ordine. Attraverso atti processuali e ricostruzioni, si legge il completo fallimento dello Stato inteso come garante dell’ordine pubblico. Attraverso le sentenze, oltre che ricostruzioni video, la verità è quasi venuta a galla dimostrando un modus operandi da parte delle forze dell’ordine oggettivamente crudele.
C’è da dire che neanche il sistema giudiziario ne esce completamente illeso da questo libro, infatti inizialmente i giudici non sembravano dare un giusto peso a fatti e testimonianze.
Ma, contrariamente alla narrazione di quei giorni che ruota attorno all’omicidio di Carlo Giuliani, il testo si sofferma in particolar modo sui fatti della Diaz. La scuola Diaz in quei giorni era stata concessa al Genova Social Forum come base operativa; lì dormivano molti manifestanti giunti da tutta Europa, inoltre c’erano anche giornalisti che, non sapendo dove andare, si erano fermati lì. Alla mezzanotte del sabato 21 luglio diversi mezzi della polizia arrivarono in via Cesare Battisti e lì iniziò un “massacro” (così come definito dal PM Francesco Cardona Albini). I poliziotti, e anche alcuni responsabili, entrarono nella scuola Diaz e cominciarono a picchiare selvaggiamente e indiscriminatamente tutti coloro i quali si trovarono, sfortunatamente, lì quella notte. Il massacro fu talmente evidente che le urla dei ragazzi e delle ragazze furono sentite anche dagli abitanti delle case vicine; indicativa è una delle chiamate fatte da uno di questi alla polizia: “Pronto, polizia? Qui in via Cesare Battisti stanno attaccando i ragazzi!” “Sì, lo sappiamo grazie.”
Molti di quei ragazzi e di quelle ragazze furono poi soccorsi dalle ambulanze arrivate lì per le segnalazioni, altri e altre invece furono portati/e nella caserma di Bolzaneto dove subirono altre vessazioni e violenze.
Durante i processi che, ovviamente, scaturirono dall’episodio della Diaz, la versione che fu portata dalle forze dell’ordine fu quella che l’irruzione nella scuola era stata decisa per catturare i Black Block e le loro armi. Indicativo fu il caso delle molotov che furono trovate nella scuola, poi in seguito alle indagini fu invece scoperto che erano state portate degli agenti stessi perché si trattava di molotov sequestrate in una piazza il giorno prima.
Insomma, alla luce di questi e molti altri avvenimenti che caratterizzarono quei giorni lo Stato italiano avrebbe dovuto munirsi di misure per contrastare la violenza degli agenti. Ancora oggi assistiamo a scene violente per mano dello Stato, come la vicenda accaduta nel carcere di Caserta nel marzo 2020, ma si fa ancora fatica a parlare di codici identificativi, di riorganizzazione dell’intero “sistema sicurezza”. A vent’anni di distanza il libro di Mantovani fotografa, ancora, una situazione inaccettabile dell’intera organizzazione della polizia italiana, se poi guardiamo alla carriera che hanno fatto i responsabili dei fatti del G8 l’amarezza è ancora più forte.
Un paese dove il dibattito pubblico di quei giorni, che continua tuttora, ruota attorno alla criminalizzazione di Carlo Giuliani perché “aveva un estintore in mano” piuttosto che al fatto che come controllore dell’ordine pubblico in una manifestazione di quelle dimensioni ci fosse un poliziotto ventenne armato e legittimato ad uccidere, senza alcun tipo di esperienza e addestramento, è chiaro che è un Paese che ha un enorme problema di percezione delle reali criticità.
Se dopo vent’anni noi siamo ancora qui a parlare di questi fatti, che addirittura sono entrati nel vocabolario quotidiano di tutti/e noi, è evidente che c’è un problema; è evidente che la ferita “brucia ancora”; è evidente che la politica in questi anni non ha saputo, o voluto, dare le giuste risposte e soluzioni.
Al G8 di Genova e alla scuola Diaz, sotto gli occhi del mondo intero, violenze ingiustificate e carte false colpirono l’esercizio di diritti costituzionali fondanti, quali la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di riunione. In una società complessa è fisiologico che un ampio movimento di contestazione presenti al suo interno frange radicali o estreme, pronte in certe condizioni a sfasciare vetrine e automobili in sosta e ad attaccare la polizia e i carabinieri; in altri paesi europei questi fenomeni destano minore scandalo. (…) ma se a violare la legge è chi deve difenderla, la questione è più grave e come tale va affrontata.
(…) Non è stata possibile, dopo una tragedia come il G8 del 2001, neppure l’introduzione di banali correttivi come le targhette identificative sui caschi o sulle divise degli agenti e dei militari impegnati in ordine pubblico o in operazioni come quella della Diaz. L’aveva proposta, tra gli altri, la relazione del questore Micalizio, l’ispettore del Viminale, però è stata bloccata dalle resistenze dell’ala più corporativa e retrograda dei sindacati di polizia e dai suoi numerosi padrini politici. Quelli che, dopo Genova, pensavano solo a “difendere i poliziotti”, qualsiasi cosa avessero fatto.