Festa della donna, il 18% delle donne smette di lavorare dopo la nascita di un figlio. Il rapporto INAPP

Ida De Carolis

, Attualità

Con il passare del tempo c’è sempre il rischio che certe “celebrazioni” perdano il vero senso, la vera motivazione che l’hanno ispirate lasciando il passo alla ricorrenza “consumistica e commerciale”.

E’ sicuramente quello che sta accadendo alla “Giornata internazionale dei diritti delle donne” meglio conosciuta come la “Festa delle donne”. Istituita per ricordare le conquiste sociali, economiche e politiche raggiunte dalle donne, ma anche le discriminazioni di cui sono state e sono ancora oggetto nel mondo. Insomma, se si considera la condizione della donna in gran parte del mondo ci sarebbe davvero ben poco da festeggiare.

Secondo quanto emerge da “Rapporto Plus 2022. Comprendere la complessità del lavoro” che raccoglie i risultati dell’indagine Inapp-Plus condotta su un campione di 45.000 individui dai 18 ai 74 anni e presentato a Roma, alla vigilia della “Festa delle Donne”, dopo la nascita di un figlio quasi 1 donna su 5 (18%) tra i 18 e i 49 anni non lavora più e solo il 43,6% permane nell’occupazione (il 29% nel Sud e Isole). Motivazione prevalente la conciliazione tra lavoro e cura (52%), seguita dal mancato rinnovo del contratto o licenziamento (29%) e da valutazioni di opportunità e convenienza economica (19%).

La quota di quante non lavoravano né prima, né dopo la maternità è del 31,8% e del 6,6% quella di quante hanno trovato lavoro dopo la nascita del figlio.
Sul calo della partecipazione femminile dopo la maternità, infatti, pesano condizione familiare, servizi di welfare e istruzione. Nei nuclei familiari composti da un solo genitore sono più elevate le quote di uscita dall’occupazione dopo la maternità: 23% contro 18% tra le coppie. Nelle coppie invece è maggiore la permanenza nella non occupazione: 32% contro il 20% tra i monogenitori. Resta il nodo della poca disponibilità e accessibilità, anche economica, degli asili nido.

“La scarsità di servizi per la prima infanzia – si evince dall’indagine – è confermata dalla percentuale di genitori occupati che dichiara di non aver mandato i propri figli in età compresa tra 0 e 36 mesi all’asilo nido (56%). Tra coloro che invece mandano i figli al nido, poco meno della metà (48%) ha usufruito del servizio pubblico mentre una quota pari al 40% ha utilizzato un asilo nido privato e al crescere del reddito disponibile aumenta il ricorso ai servizi di asilo nido privati. Per le famiglie che non possono farsi carico di tutti gli impegni di cura dei figli, i nonni sembrano essere l’alternativa più utilizzata (58%). Si tratta di un’opzione economicamente vantaggiosa e in generale flessibile. La risorsa principale del “welfare-fai-da-te” è soprattutto utilizzata nel Mezzogiorno (63%). Il titolo di studio protegge dalla perdita del lavoro, ma solo in parte. Restano nel mercato del lavoro le più istruite (il 65% delle laureate), ma smette di lavorare oltre il 16% (sia di laureate, che di diplomate) contro il 21% delle madri con la licenza media. Per conciliare lavoro e cura dei figli, circa un quarto degli intervistati ritiene fondamentale un orario di lavoro più flessibile, mentre un 10% indica la possibilità di lavorare in telelavoro o smart working. Il part-time è più frequentemente indicato dalle donne (12,4% rispetto al 7,9% degli uomini). Quest’ultimo dato, unito a quello relativo all’utilizzo dei congedi parentali (68,6% per le donne contro il 26,9% degli uomini), ribadisce un modello familiare che relega la componente femminile nel ruolo di caregiver principale, con evidenti ripercussioni occupazionali e retributive sia nel breve che nel lungo periodo.

Precariato, disoccupazione e stipendi, a parità di mansioni, decisamente più bassi rispetto ai colleghi uomini: tutti dati che ci raccontano un Paese in cui la condizione femminile è ancora eccessivamente penalizzata.

Photo: @izusek da Canva

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