La Corte Costituzione ha ritenuto inammissibile il quesito referendario “perché a seguito dell’abrogazione, ancorchè parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.
Il quesito del referendum, promosso dall’associazione Luca Coscioni, prevedeva l’abrogazione parziale dell’articolo 579 del codice penale – che disciplina il reato di omicidio del consenziente – ed avrebbe introdotto l’eutanasia legale.
Ora 1.239.423 di italiani che hanno firmato a favore della proposta e che chiedono una legge che possa garantire a chi lo desidera, e con patologie irreversibili, di porre fine alle proprie sofferenze con dignità, circondato dall’affetto dei propri cari e con l’assistenza del servizio sanitario, vogliono delle risposte da parte della politica.
Quella politica che quando deve decidere se fare un passo avanti in tema di diritti civili e umani puntualmente indietreggia.
“Il cammino verso la legalizzazione dell’eutanasia non si ferma. Certamente, la cancellazione dello strumento referendario da parte della Corte costituzionale sul fine vita renderà il cammino più lungo e tortuoso, e per molte persone ciò significherà un carico aggiuntivo di sofferenza e violenza. Ma la strada è segnata”. Lo afferma in una nota l’associazione Coscioni, garantendo che “non lascerà nulla di intentato, dalle disobbedienze civili ai ricorsi giudiziari, dal corpo delle persone al cuore della politica”.
Ora la palla passa al Parlamento che dovrà votare la legge che dovrebbe introdurre il suicidio assistito in Italia, ma che già in Commissione aveva visto una netta spaccatura tra centrodestra e centrosinistra. Il ddl ricalca con alcune modifiche quanto stabilito dalla sentenza della Corte Costituzionale sul caso di Marco Cappato che fu rinviato a giudizio, poi assolto, per aver accompagnato dj Fabo in Svizzera perché si sottoponesse alla morte volontaria assistita. Cappato era stato accusato di istigazione e aiuto al suicidio in base a quanto previsto dall’articolo 580 del codice penale: “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni”.
Con la sentenza di assoluzione di Cappato la Corte aveva dichiarato la parziale illegittimità dell’articolo 580, escludendo la punibilità di chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio” di “una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili”. In questi casi dunque non c’è reato, a patto che la persona sia “pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Fu la stessa Corte nel 2019 a sollecitare la politica a colmare il vuoto normativo.
Ignorare il dolore, la sofferenza e la personale dignità di chi ha davanti a sé una patologia irreversibile non è tutelare la vita.