Da anni oramai le parole Ricerca e Università sono ridondanti nel panorama societario.
Se da un lato esiste quella forma coraggiosa di ridondanza grazie agli studenti e ai precari che lavorano, i quali spesso non vedono riconosciuti i propri diritti e avanzano proposte, dall’altro lato, invece, quella stessa ridondanza si è ridotta ad un eco nel corso del tempo, determinato da una politica che ha scelto di tagliare e smembrare l’università e la ricerca pubblica, senza porsi l’obiettivo di ricostituire l’intera struttura con spirito critico.
Università e Ricerca sono due importanti cardini da cui non si può prescindere se intendiamo costruire una società caratterizzata da sviluppo e progresso, non solo in termini di economia (aspetto che richiede un’ampia discussione su più fronti), ma soprattutto di cultura in senso lato, cioè di riscatto sociale, di intellettualità, di autodeterminazione, di crescita personale e di riconoscimento e tutela dei diritti.
Oggettivamente si è registrata una nota di discontinuità rispetto ai governi precedenti, tanto è vero che nel Decreto- Legge Rilancio sono stati stanziati fondi per università e ricerca. Tuttavia, molti punti essenziali e che costituiscono la base risolutiva del problema restano irrisolti, come la condizione di precarietà di donne e uomini impegnati nell’università e nella ricerca, i titoli non riconosciuti, il divario che esiste tra le università del Nord e del Sud, i fondi che vengono elargiti alle università private a discapito di quelle pubbliche.
È di qualche giorno fa la notizia che vede l’introduzione, all’interno della bozza della legge di bilancio, di ulteriori 84 milioni di euro a favore delle università private; un dato che ancora una volta, in questo contesto di estrema crisi, aggravato dall’emergenza Covid, sembra una scelta di campo abbastanza chiara, soprattutto in virtù delle numerose richieste di proroga con borsa di tutti i cicli di dottorato attivi.
Ecco perché l’ADI (Associazione Dottorandi e Dottori di ricerca in Italia), l’organizzazione di rappresentanza sociale dei dottorandi, dottori di ricerca e ricercatori in Italia, ha dichiarato che probabilmente le figure precarie che attualmente contribuiscono al funzionamento della ricerca in Italia, non sono tra le priorità per questo governo, nonostante le tante parole spese dall’inizio della pandemia ad oggi.
Così per vederci più chiaro la redazione di Formicae.it ha voluto intervistare Luca Dell’Atti, Segretario Nazionale dell’ADI.
Luca è un assegnista di ricerca in diritto costituzionale e pubblico comparato, ha studiato presso l’Università degli studi di Bari e, come tanti altri ed altre, vive la situazione di precarietà sulla sua pelle; nella conversazione fa un passaggio importante in cui spiega che «noi abbiamo un precariato che è strutturale, anzitutto perché è la stessa legge che disciplina il reclutamento universitario a volere il precariato» e prosegue «la Legge Gelmini ha cancellato la figura del ricercatore a tempo indeterminato, sostituendolo con due tipologie di ricercatore a tempo determinato e quindi, in buona sostanza, per avere un contratto stabile in università bisogna diventare professore associato e, prima di poter accedere a questo doppio binario da ricercatore, c’è il calvario degli assegni di ricerca che sono forme contrattuali poco regolamentate».
Attualmente infatti gli assegni di ricerca sono regolamentati in piena autonomia dai singoli atenei e quindi si riscontrano delle enormi difformità tra le università, in termini di garanzie e diritti.
Secondo Luca l’altro vero problema è «l’intermittenza dell’assegno di ricerca, cioè il giovane ricercatore vince un assegno, lavora un anno, poi sta senza niente per un altro anno o due finché non riesce a vincerne un altro».
In pratica ciò rende il lavoro di ricerca non continuativo e questo, purtroppo, è una grossa pecca perché la ricerca per essere di qualità richiede una certa continuità. Inoltre, tale forma contrattuale ostacola la progettualità di vita del ricercatore che rimane appeso ad un filo, senza un’adeguata valorizzazione del proprio lavoro, impiegando parte del suo tempo a lavorare gratuitamente.
«Oltre al problema normativo – commenta Luca – abbiamo il problema del finanziamento: un sistema di questo tipo è messo ancora più in sofferenza dal fatto che il finanziamento per il reclutamento è stato depauperato negli ultimi 10 anni, quindi significa che non hai neanche i fondi per poter bandire assegni e contratti, un problema che è ancora più rilevante nelle piccole università e al Sud».
L’emergenza Covid ha praticamente aperto il pentolone che già bolliva e quotidianamente assistiamo alla spettacolarizzazione e distorsione, se vogliamo, del vero ruolo che la Ricerca ha nel nostro Paese, perché vittima della banalizzazione o addirittura dell’esaltazione, situazione resa ancora più grave soprattutto dalla mancanza di strumenti che possano tutelare le persone che si occupano della stessa.
Così Luca dichiara che «la ricerca è anzitutto quella che troverà il vaccino, quindi ha un ruolo importantissimo nel nostro Paese e del resto lo vediamo ogni giorno in tutta questa fase di emergenza, i ricercatori vengono chiamati in causa dalla politica, dalla stampa, dall’opinione pubblica ogni giorno, con la pretesa di avere certezze e il nostro compito non è soltanto svolgere il nostro lavoro di ricerca concreto ma è un compito che ha molto a che fare col ruolo democratico della ricerca».
Della nostra chiacchierata, tra tutti i punti di vitale importanza necessari a dare nuova linfa al mondo della ricerca e dell’università, e di conseguenza all’Italia intera, forse quello che ancora di più tocca le corde è il concetto del ruolo democratico della ricerca. Quel ruolo che ci riporta alla base dei principi di uguaglianza e giustizia della nostra Costituzione e che vanno ancora pienamente applicati nella vita reale del nostro Paese.
È vero, la Ricerca non fornisce verità assolute, ma è fatta di confronti, di confutazioni, di verifiche e attenzione, tutto questo già esiste grazie ai tanti borsisti, dottorandi, assegnisti di ricerca e collaboratori che ogni giorno con spirito di dedizione, seppur nella precarietà più assoluta, contribuiscono a dare valore a questo Paese.
Tutte queste donne e uomini non vanno più ignorati, se l’elemento di discontinuità rispetto al passato ci deve essere, dovrà essere netto e ci sono certamente degli ottimi punti di partenza su cui si può già lavorare.