In pochi conoscono oggi Rudy Ray Moore; o perlomeno: chi non risale storicamente alle origini del canto rap e del cinema underground afroamericano.
Rudy Ray Moore, pseudonimo di Rudolph Frank Moore, è stato comico, attore, cantante e produttore cinematografico statunitense, noto negli anni Settanta per aver creato il personaggio di “Dolemite” nell’omonimo film del 1975. Rifiutato e bistrattato dalla categoria cinematografica dell’epoca, Moore ebbe viceversa la forza e la determinazione di perseguire le sue passioni, il suo obiettivo artistico… seppure esplicitamente a sfondo satirico sessuale, con riferimento a temi come la prostituzione, il gioco d’azzardo e lo sfruttamento. Insomma: riuscì ad ottenere, in fine, un massiccio successo internazionale, tanto da risultare “nuovo” e, ovviamente, vietato a una certa fascia di età.
Una distribuzione “bianca” si fece avanti all’intrepido Moore, smuovendo la società afroamericana in ogni angolo dell’America e, nonostante lo storcere del naso di contendenti e critici cinematografici, appannò diverse uscite dell’epoca e si guadagnò la vetta della così detta “blaxploitation”. Questo è un genere di film che nacque negli States nei primi anni Settanta, quando molti film della cosiddetta “exploitation” furono realizzati a basso costo avendo come pubblico di riferimento gli afroamericani.
Alla base di quest’opera, scandalosa o no che sia stata, la comunità afroamericana del tempo, costantemente rilegata ai margini della società bianca, riuscì ad ottenere una qualche rivalsa ed impossessarsi dell’attenzione mediatica non solo “nera”.
Il merito, attualmente, di riportare alla considerazione quel particolare momento è totalmente da attribuire al celebre attore Eddie Murphy, che libero di scegliere decide fermamente di puntare il suo ritorno al cinema e le sue risorse economiche, spinto dal colosso Netflix, sulla storia di uno dei suoi personaggi “mentori”: Rudy Ray Moore. Interpreta e produce infatti nel 2019 “Dolemite Is My Name”, film tratto proprio dalla storia di Moore e dalla nascita del film “Dolemite”.
Com’è nello stile di Eddie Murphy, tutto il film è basato su una linea comica, inflazionata a volte dall’intraducibilità di alcuni termini afroamericani che in italiano non avrebbero senso; ma nonostante questo, viene fuori la bellezza e i colori di una comunità innamorata della sua storia, delle sue origini, forte delle proprie sofferenze e delle proprie ambizioni.
Non manca mai l’aspetto sociale e la storia che questa fascia collettiva ha dovuto patire in America. “Culi neri” e “culi bianchi” sono la distinzione che la narrazione utilizza, perché alla base della società dell’epoca vi era questo sintomo di separazione intrinseca di rabbia e risentimento. Lo stesso fatto di utilizzare costantemente la parola “man” per chiamare altre persone, la dice lunga su quanto l’afroamericano voleva scrollarsi di dosso la definizione “boy” imposta dalla società bianca in maniera autoritaria, prima e dopo la schiavitù, in virtù di una presunta e stupida “superiorità razziale”. I neri americani dovettero quindi reagire introducendo “man” nel loro linguaggio, per non essere eternamente definiti come i “ragazzi” utilizzati e subordinati. Loro sono “uomini”!
Questo film rappresenta una vera rivelazione sentimentale per Murphy, dove non fatica affatto ad entrare nei panni di Moore. Praticamente sono la stessa persona, rivelando palesemente la sua fonte d’ispirazione alla soglia dei sessant’anni: né troppo tardi né troppo presto, quindi, per impersonare Dolemite. Il 2019 è stato il momento giusto.
I colori, le forme e le musiche del film sono meravigliosi: abiti, capelli, forme, curve, luci, ombre, sorrisi, bronci, movimenti e atteggiamenti, eleganti e pittoreschi allo stesso tempo; il tutto narrato da una regia fluida e romanziera coadiuvata da una sceneggiatura che racconta, sì il fatto storico, ma non disdegna quella nota sporgente di “passione” che dovrebbe motivare tutti coloro che come Moore sognano un “traguardo” artistico. Qualunque esso sia!
Impeccabile e meraviglioso il cast, dall’inaspettato Wesley Snipes nel ruolo del regista D’Urville Martin, alla meravigliosa Da’Vine Joy Randolph in un riuscitissimo e raro ruolo da attrice, assunto dopo una brillante carriera a Broadway nel musical “Ghost” (dove interpretò il ruolo che fu di Whoopi Goldberg) valsole anche una candidatura al “Tony Award” come “miglior attrice non protagonista”.
“Dolemite Is My Name” in fine, è un film poco esaltato, poco menzionato e forse anche mal considerato. Forse perché la considerazione nei confronti della comunità afroamericana e ancora di stampo arcaica e razzista, soprattutto in America? Probabile! Perché non credibile, invece, che si possa riportare alle scabrose tematiche alla base dell’arte di colui che ha inventato il rap, il povero Rudy Ray Moore.
C’è talmente tanta schifezza nel mondo dello spettacolo d’oggi che lo sforzo di Dolemite, in un contesto commerciale medio basso dalle tonalità prevalentemente “bianche”, non vale più.
Sceneggiatura Scott Alexander, Larry Karaszewski
Produttore Eddie Murphy, John Davis, John Fox
Fotografia Eric Steelberg
Montaggio Billy Fox
Musiche Scott Bomar
Scenografia Clay A. Griffith
Regia Craig Brewer